In uno scatolone, su in soffitta
Intanto, nel correr via dei giorni e delle ore, conto sulle dita quanto manca alla fine della raccolta preordini di Dormi Cecilia e mi interrogo sulla scrittura come viene intesa oggi da chi ha molti anni meno di me. Sono i ragazzi (di decenni più verdi di quanto sono io) che ho incontrato sulla piattaforma e sono giustamente pieni di sogni, ma mi chiedo se sappiano davvero che cosa significa scrivere, cioè tentar di far letteratura, trovare una propria voce che sia, magari anche criticabile, ma unica e che è il frutto prelibato di attente letture, di appunti presi, di passioni letterarie. Bisogna aver letto i classici e non solo i classici perché, a volte, occorre avventurarsi fuori dagli schemi per trovar chi ti somigli. E si deve avere il terzo occhio ben aperto e l'attenzione per il dettaglio che parla più dell'evidenza e il gusto per l'ironia e per le segrete assonanze.
No, non credo che sappiano tutto questo. Scrivere un libro, pur nel mondo tutto virtuale in cui sono immersi i giovanissimi, va di moda, si butta giù la prima parola che viene in mente, non si tiene conto che non si può scrivere "caldo cocente" o le "gambe di gazzella" perché l'immagine è vecchia, stantia, come un peperone dimenticato in frigo. Sola solissima, rincorro ancora il mio ideale e penso che la letteratura, per come la intendevamo noi boomers (e quelli che sono venuti prima) è stata messa in uno scatolone e poi in soffitta.

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