Era tutto il contrario


Color castagno, i tasti in sbiadita tinta avorio e ritto contro il muro, sta, oramai muto da anni, il mio vecchio pianoforte inglese. L'ebbi da mio padre che lo comprò di seconda mano dai genitori della mia amica Bea. Lei aveva già smesso di suonare e cominciai io.

Al martedì pomeriggio (o era di venerdì) eccomi all'Istituto domenicano di San Sisto Vecchio che apriva il portone antico, bocca di drago, sulla passeggiata archeologica. Entravo e il vociare delle bambine in attesa di chi le riaccompagnasse a casa mi arrivava addosso come una folata d'allegria. I grembiulini bianchi in agitazione, tante gambette nude saltavano la corda, altre impegnate nel gioco della campana disegnata con un gessetto bianco nell'impiantito del cortile. Loro giocavano e io entravo da Suor Maria Grazia, rotonda, morbida come un pan di farina, mi abbracciava tutta e poi a sedere per la sonatina.

Ogni anno se n'imparava una differente e si tornava così a casa, soddisfatti, con le dita elastiche, già nel cuore delle note e pronte a fare il pavone con i genitori. Non vi dirò come e perché smisi di suonare, ma solamente che, giunta - musona - al Ludovico Da Victoria (che era allora un conservatorio e da lì sparì, ma io non ci andavo più, Emanuela Orlandi), passai l'esame, compreso solfeggio e dettato,  non so proprio come.

Una mattina scolorata di domenica,  già luglio credo, a Porta Portese, mi trovo faccia a faccia con un compagno di corso. Gran barbone, sui trenta, vendeva nel suo banco giacche di pelle usate. Mi vide e: "Tacci stracci, Benedè, ce l'hai fatta!". E invece era tutto il contrario. Ah dolce Suor Maria Grazia!

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