Un ricordo mio di Suor Gervasia

Un fiore per Suor Gervasia...

Ho letto oggi, sul Corriere della Sera, un ricordo di Suor Gervasia l'angelo di Rebibbia, che teneva carteggi con tanti detenuti, compreso Giusva Fioravanti. Non so perché han scritto di lei sul quotidiano di Via Solferino, ma io l'ho conosciuta bene e ne conservo un ricordo indelebile che a suo tempo ho raccontato sul blog ora chiuso "Storie tragicomiche della mia infanzia. In onore di lei, viva nel mio cuore, lo ripropongo qui tale e quale a come appariva nel mio blog precedente. Pronti, ai posti, via:

Avevo conosciuto Gervasia, anzi suor Gervasia, per una collana di eventi che non hanno in sé nulla di tragicomico e che, quindi, preferisco lasciar in un canto e, via, in allegria!  Lei, piccola, rotondetta, tutto pepe - come certe trottole che sembrano far piroette anche quando la luce nella cameretta è spenta e i bambini coricati - aveva avuto dalla superiora del suo Ordine (che si occupa di insegnare alle bambine) il permesso di non occuparsi di fantolini  e grembiulini, ma di disgraziati, carcerati e affini (soprattutto i politici ed era "innamorata" di Pierluigi Concutelli). E io, con lei. Passavo, dunque, mattinate a far da postina a questo o a quel povero Lazzaro;  da Cyrano agli stranieri che non masticavano l’italiano e altre allegre amenità di questo tipo. Un giorno era un pacco da consegnare, un altro un orlo da cucire. Lei, Gervasia aveva una frase sola da adoperar per tutti, caini e abeli, alti e bassi, grassi e magri:. Diceva solo: “Bello (o bella, per le femmine) come il sole” e poi silenzio e sorriso.

Una mattina marzolina, mentre il mondo si sciacquava la faccia in acqua fredda, io e Gervasia siamo, tutte quante apparecchiate, a Sant’Anselmo, che è  una chiesa in un giardino, china sul Tevere dall’alto dell’Aventino. Chi c’è chi non c’è, suor Gervasia non me lo vuol dire e nel suo facciotto bianco  (come somiglia ora che ci penso alle fatine disney della Bella addormentata!) e rosa si sgomitola la solita allegra serenità di sempre. D’un tratto, da un gran portone color fango, esce un monaco vestito in foggia tibetana, giallo e arancione e un poco rosso carminio pure. Ci guarda e ci fa segno di aspettare. Tiro appena su col naso ed ecco uscir dalla stessa porta… il Dalai Lama.  Tra lui e Gervasia, solo sorrisi, inchini, silenzi. Io, mutola, un nodo nella strozza. Ma è già tempo di andar via.  Prima di girare i tacchi, senza scherzi, udii Gervasia dire al Dalai Lama: “Bello come il sole!” e battergli sulle gote riarse due manine di cioccolato bianco…

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