Dolce Monica

 

All'Istituto Mater Dei, la mia compagna di banco delle medie si chiamava Monica. Il cognome non lo rivelerò, ma dirò di lei che aveva due grandi occhi di marmo azzurro e i capelli spessi e biondi che non occorreva stirare dopo lo shampoo. Viveva con suo padre e con una mamma  e un fratello che non erano suoi, in un vasto appartamento  fatto di stanze che parevano riprodursi nella notte e dove il sole entrava poco o mai. Era  in Via in Lucina,  che è un vicolino nascosto e timido dietro Piazza del Parlamento nella mia Romaamor.

Dalla finestra interna del tinello, che dava su un cortile, parlava a urlo con un'altra compagna di classe dagli occhi di gatto che anche le era amica come me. Oh come mi divertiva vederle  chiacchierare di sotto in su,  a volte in alfabeto muto per non disturbar chi riposava, mentre ci preparavamo, un laccio di cuoio intorno alla testa,  lei e io, per andare a caccia di autoadesivi. Parlava con lei, sì, ma il cuore lo donava a me solamente. E io a lei. Le sister si misero per storto, non volevano che fossimo amiche e fui spostata di banco. Ci guardavamo da lontano in un sospiro. Venne ospite da me in Sardegna e lì si palesò, misteriosamente, il busillis. Un dottore la visitò e chiamò d’un canto mia madre...

In autunno, a scuola, Monica non c’era più e la ritrovai più avanti, a Spoleto, dove lavoravo come hostess di conferenza. Era tanto cambiata, i capelli corvini, gli occhi spenti, e non era  più lei. Mi voleva trascinare con sé non so dove tra Spello e Spoleto nella notte nera. Non andai.  Seppi, poi, forse due anni dopo, che era andata in America a cercar la sua vera mamma che l’aveva abbandonata quando aveva tre anni appena e a New York morì tra la neve.

Per lei ho scritto un racconto “Finalmente libera” che vinse il primo premio (e un assegno persino) a un concorso letterario del Comune di Ascoli Piceno e oggi nel frescolino di fine agosto che lancia un laccio a settembre penso a lei e a come mi piaceva quando mi abbracciava stretta e mi chiamava bettabup…

 

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