Gita al Palazzo Braschi in primaverile solitudine
Che vista s’ammira dal terzo piano di Palazzo Braschi, il museo di Roma! In basso tante formichine umane s’aggirano, in nuvoline e nuvolette, per la piazza Navona mentre, sulla destra, esplode l’azzurro marino della fontana del Moro. Ma, presto, alza lo sguardo verso la lanterna borrominiana della chiesa di Santa Agnese! Ricamata nel cielo appena lavato dai cherubini, essa svetta in alto e noi con lei nelle altezze divine. Torno a terra e m’aggiro, solissima, in un museo dove non sono mai stata. E’, come ho già detto, il Palazzo Braschi e proverò, se avrete la pazienza di venirmi appresso, a raccontarvi per sommi capi questa gemma che in pochi, credo, conoscono.
Si sale in ascensore al
terzo piano, dove stanca una guardiana s’appisola quasi, legata a un romanzo. Dritto
per dritto scorrono, in un video, le immagini degli sbancamenti della Spina di
Borgo, uno scempio – per me – e anche per chi, suo malgrado, ne fu progettista ed esecutore, cioè Marcello
Piacentini, architetto, il quale soleva dire, filosofo, che se il Signore aveva
scelto dei pescatori per apostoli, voleva pur dire che le spine gli piacevano e
dunque perché buttar giù un intero quartiere medievale per far posto alla via
della Conciliazione? Riveder quelle immagini mette sale nel cuore se è vero,
come è vero, che persino Alberto Sordi si ricordava l’emozione sua di bambino,
nel trovarsi in sobbalzo, davanti l’abbraccio
del colonnato berniniano dopo aver scodinzolato nei vicoli stretti e bui, tra
slarghi e chiesette, della Spina di Borgo.
Vado avanti nella mia
personale Roma sparita racchiusa in questo museo per altri sbancamenti. Questa
volta sul Tevere per far posto a quei muraglioni bianchi, senz’anima, che han
diviso per sempre Roma dal suo biondo fiume, che pure a volte la appozzava… E
tutt’intorno, nell’ultima stanza del piano, dipinti che raccontano il fiume com’era
e il fiume come è. Tra tutti, spicca un quadro di Giulio Aristide Sartorio,
pittore insigne, accademico d’Italia, amico di Gabriele D’Annunzio. Ritrovo la
Roma sparita, in un’altra sala, dove in una radura tra gli alberi “magnano e
bevono” i contadini romani vestiti in costume. Le donne col ciappo bianco in
testa e le gonne vermiglie, gli uomini con il cappello fiorito e in lontananza
si balla il saltarello…
Però non ho segnato l’autore
del quadro. Peccato. Avanti, ancora Roma come era. Ecco la gran festa di
calendimaggio e altissimo sulla piazza del Campidoglio s’innalza l’albero della
Cuccagna dove si trova il ben di Dio e una parola salirci. Il dipinto è firmato
Agostino Tassi, sì, sì, proprio lui, il pittore che violentò Artemisia Gentileschi
(la quale, un piano più giù è celebrata nella mostra “Roma Pittrice, artiste al
lavoro tra XVI e XIX secolo”. Ma della mostra scriverò un’altra volta, ora, continuiamo
ad ammirare la Roma che c’era e che non c’è più. C’erano anche le grandi dame
come Maria Torlonia, sposata Borghese, qui rappresentata in un bel busto
firmato Giulio Tadolini, autore della magnifica tomba del grande Papa Leone
XIII a San Giovanni in Laterano.
Immersa nella giovinezza perenne del marmo, essa, donna Maria, osserva questa stanza preziosa dove le fanno intorno il girotondo tanti pettegoli uccellini che m’avvertono con il loro cinguettii che è tempo di tornare a casa per il desinare. Intanto, e sorrido tra me, ho guadagnato anche 'ispirazione per il mio prossimo romanzo, sì!
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