Un omaggio con Romaamor
L’appartamento dei miei
nonni paterni, arioso, ampio di stanze e di balconi, s’affacciava su un giardino
condominiale d’ombra e verde, tenuto come un luogo fatato da uno scorbutico
giardiniere di nome Sandro. Tutt’intorno a quel cuore d’alberi e piante, dove,
in una fontanella di pietre, nuotavano dei pesci rossi, c’erano quattro
palazzine di cooperativa, costruite per i dipendenti del genio militare, ed
erano alte di sei piani toccando col capo il cielo e tutte con i piedi ben
piantati sull’Appia Nuova. Andavo a pranzo dai nonni paterni al giovedì
solamente, con mio fratello Marco. Laelena, piccola e rotonda, preparava il
tavolo in tinello per noi, per i nonni e per la zia Cecilia, detta Cilia, che lì,
vedova e da Trieste, si era ritirata.
Un giorno, a sorpresa,
eccomi, stretta in un cappottino scuro di qualche cugina, rotolata in macchina
con tutti i fratelli e andiamo a trovare i nonni e io a ripetere a macchinetta:
“Ma mamma, non è mica giovedì?”. Infatti non era giovedì, ma era morta la zia
Cilia. Saliamo le scale ché per l’ascensore c’eran da infilar nella linguina
dell’apparecchio le dieci lire che mio padre non aveva. All’arrivo, i miei si
perdono negli abbracci e tutti piangono, ma io no perché sono stata
parcheggiata nel guardaroba dove, come ogni giovedì, s’apre il mio scrigno d’Aladino,
in forma di un armadio panciuto pieno di
ogni cosa: elastici, penne, matite colorate, fiori di lavanda seccati, fili
colorati. D’un tratto, mia madre mi strattona, via via a salutare la zia Cillì.
Giaceva, color zafferano, le mani allacciate intorno a un Rosario, i capelli di
neve. “Su, avanti, salutala!”, mia madre mi spingeva avanti. Ma io, come una
molla al rimbalzo fuggii via e fu quello – il fuggir via - il mio primo incontro con i defunti. Altra
cosa era andare al camposanto, nel giorno loro, in quelle strane città di
monumenti bianchi dove, al camminare, ti venivano incontro mille occhietti e
fiori veri e finti e lumini rosa e gialli.
Allora, indossati i panni
della brava bambina, mi facevo solenne, quasi pomposa, e sistemavo con cura i crisantemi
gialli nei vasi, correndo alle fontanelle del cimitero, lassù al Pincetto del
Verano, per procurarmi l’acqua che era vita. La vita al camposanto era l’acqua
dei fiori recisi, morti anche loro, che mia mamma portava ai suoceri in gran
mazzi d’oro e bianchi e, a volte, quando eravamo in Friuli, a sua mamma, in un
cimitero di campagna, a Tiezzo…
No, quando io ero
piccola, la festa americana delle zucche, non c’era, non si conosceva se non
nei libri di scuola quando ci spiegavano gli usi e i costumi degli altri popoli
del mondo. In America, lo sapevamo, durante la notte di Ognissanti, i bambini
giravano vestiti da spettri e da mostri, e chiedevano “Trick or treet”, cioè
scherzetto o dolcetto, in giro per la case semi addormentate e nel buio pesto
si facevano condurre da zucche illuminate per di dentro da una luce che
guizzava dagli occhi cavi. Ma per noi era una specie di carnevale all’americana
e ci pareva lontano come la luna, una tradizione come in Spagna la corrida che
non avremo mai avuto in Italia. Figuriamoci! Invece, un giorno, me lo sono
ritrovato qui in Italia e avevo mio figlio piccolo, sui cinque anni credo, ma
non ne sono sicura.
E la mamma di un suo
amichetto di scuola festeggiava alloui (come diceva lei) e convinse anche il
mio bambino ad andare con loro e lui ci andò, ma col broncio, perché non voleva
vestirsi da orco. E di ragione ne aveva da vendere. Io, per me, sorpresa, lo lasciai
andare, ma mi guardai bene dal partecipare. Gli anni da allora sono volati e
quella festa americana delle zucche, che preferisco non nominare, sembra
diventata parte del vivere italiano. Eppure, eppure, mi pare che sia rimasta
nella crosta esterna dell’italianità, una tradizione posticcia, come una
parrucca sul capo di un bello scalpo di capelli fluenti, una moda passeggera che
non ci appartiene, destinata a perdersi perché, diciamolo sottovoce, di orrori ne vediamo e viviamo anche troppi ogni
giorno per sopportare, anche solo per scherzo, di trovarci faccia a faccia con
un vampiro…
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