Un concerto a Santa Maria del Popolo
La primavera anima,
gioconda, le strade di Roma che m’accolgono, sotto i dardi dell’astro, nel mio
andare incontro a una serata importante per me che esco di rado dopo il
tramonto. Conclusa la Santa Messa delle 18 e 30, infatti, nella stupenda chiesa
cara a Papa Borgia, di Santa Maria del Popolo, si terrà un concerto di
Quaresima intitolato “La Pietà”. Il quartetto Pessoa, una soprano e una mezzo soprano,
coadiuvati dalla Corale Polyphonia (il coro della basilica) eseguiranno lo
Stabat Mater di Pietro Persichini. E io, invitata da Gianfranco Gammelli, un
basso della Corale, un amico alto nella persona e stirato nei baffi eleganti,
non posso e non desidero mancare.
Infatti eccomi a Trinità
dei Monti, accesa dalla folgore pomeridiana. Roma m’appare lì in basso nello schianto della sua bellezza.
Cupole, tetti, terrazzi fioriti, palazzi cotti dall’antichità. C’è ancora il terrazzo dove, bambine e
ragazze, pascolavamo in divisa noi alunne dell’Istituto Mater Dei, ma è di
molto mutato come una selva trasformata in giardino. Cammino e mi segue sulla
destra il verde pennacchio del Sacro Cuore. E vicino, dirimpetto al Pincio che
si protende come un petto di mamma sull’Urbe, erbe spettinate fan da poggio a
terrazzi abbandonati e misteriosi popolati solo da aranci caduti.
Mi perdo nella meraviglia
eterna di Roma e salutando un bel leone
di marmo che solenne (e non ruggente) mi chiama eccomi giù in piazza e dopo il
cambio delle scarpe (un gesto furtivo e veloce), puffette, in chiesa. Chiesa?
Oh sembra piuttosto un museo dove ambulano torme di curiosi, centinaia di
persone in viavai di fiume, richiamate dal Caravaggio. Il brusio impedisce la
preghiera e la villania la fa da sovrana. Pazienza, le orecchie le tappa per me
il Signore e finisco lì il mio Santo Rosario in attesa della funzione che
giunge insieme a un silenzio profondo, orante, magnifico. Il Padre agostiniano (è affidata agli agostiniani
la cura di questo gioiello della Chiesa Romana) legge da solo tutto quanto,
letture e preghiera dei fedeli, come ancora adesso è nelle Messe tridentine
(che amo). L’antico rito risorge a modo suo nel disordine moderno. La Messa è
molto cantata e dietro di me una voce angelica di soprano, Madeleine, che ritroverò
poi tra gli artisti del coro. Sant’Agostino, mi sovviene, diceva: “Chi canta,
prega due volte”…
Ma avanti, presto,
arrivano musicisti e cantori e si sistemano davanti all’altare. Si distingue
per stile il maestro Alvaro Vatri, il direttore. Due splendide voci di soprano,
Ornella Pratesi e di mezzosoprano, Christine Strehubur, si diffondono intorno,
accompagnate dal magnifico coro che le omaggia. La musica e il canto rapiscono
l’anima e la portano in alto, la mia si fonde al dolore della Vergine e lo vivo
come ferita ardente. Tutt’intorno sento che il sigillo del cuore di ognuno e di
tutti palpita di gioia come avendo ritrovato l’antico cammino. Scrosciano
infatti gli applausi (che sono anche per il lettore, Stefano Nazzaro, per aver ben
recitato versi del Paradiso di Dante e assaggi delle Laudi di Jacopone da Todi)
e arriva un bis molto apprezzato. La serata è finita, saluto gli amici, torno a
casa.
Ma prima di chiuder qui
il capitoletto rosa, il nostro Pietro Persichini, l’autore dell’opera, merita
lui pure di esser ricordato perché fu musicista di fama, visse a cavallo tra Sette e Ottocento, sposò in prime
nozze una luterana (che, invaghitasi d’un francese, lo abbandonò, rubando oro e
ricchezze di casa) e in seconde, felici, una soprano. Fecondo e di successo
finì, da morto, in una fossa comune del Verano. Suo padre, e questa storia
commuove, faceva di cognome Persi, ma siccome era basso di statura fu detto
Persichini. E Pietro, oltre al nome del Principe degli apostoli, portò quelli
altisonanti dei tre Re Magi, come s’usava allora nella mia amata Roma papalina.

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